La
percezione, come il linguaggio, ha bisogno di contrasti
per
assumere il proprio significato”
(R.
Gregory, “Occhio e cervello”, pag. 284)
Dove
ci sono troppe informazioni (iperstimolazione) o troppo poche (ipostimolazione), il cervello non presta
attenzione, oppure si stanca. Il cambiamento è una necessità
biologica dell'essere umano, mentre la monotonia (mono-tono,
monotono…) è meno accettabile.
Come
ci insegnano gli studi di neuroscienza, il
cervello si è evoluto per abitare un mondo fatto di contrasti e
cambi di scena.
Un ambiente senza contrasto, che lo renda leggibile, figurabile, dinamico, biologicamente più vicino ai nostri bisogni psicofisiologici, risulta essere stancante.
Uno spazio policromatico (studiato e progettato) soddisfa esigenze percettive.
La natura ce lo racconta ogni istante e dimostra quanto importante siano i cambiamenti, le sfumature, i chiaroscuri, la possibilità di mimetizzarsi e di evidenziarsi all'interno di uno scenario. J. Gibson ci parla di gradienti di tinta, di luminosità nella lettura percettiva del mondo e materia, texture si propongono ricche di elementi e di informazioni, al fine di rendere leggibile il contesto.
I
contrasti sono parte integrante del nostro vivere. Senza di essi
regnerebbe la monotona definizione di un universo piatto e
inconsistente. Senza mutamenti di luminosità e di colore non
distingueremmo distanze, né volumi, l'orientamento
verrebbe disturbato e a poco a poco ci spegneremmo, come una pianta
che muore se privata della luce.
Il
contrasto è fonte di segnali e significati, ci dona un arricchimento
che è proprio della diversità. Così come una composizione musicale
non può essere costruita su un'unica nota, ma si alimenta di
accordi, melodie, intervalli, silenzi, anche la nostra percezione
visiva (che del resto sviluppa sinergie sinestesiche) abbisogna di
più elementi correlati tra loro per funzionare pienamente.
La
stessa lettura di un qualsiasi font (un segno, una frase, una parola
scritta) si basa sul contrasto figura/sfondo, utilizzando differente
tinta, saturazione e chiarezza.
Impossibile leggere nero su nero, o
rosso su blu quando rosso e blu vibrano della stessa impetuosa
cromaticità.
I
contrasti non chiedono però il caos, che confonde e crea stanchezza.
Il cervello si nutre di variazioni, ma deve controllare e comprendere
i dati che arrivano; quando vi è surplus di dati, si ha il tilt,
manca l'equilibrio.
Detto
ciò, vi è bellezza nella differenziazione e quello che in quantità
potrebbe sparire in mezzo ad un tutto, si fa notare come elemento
saliente, fino a divenire protagonista della scena stressa.
Cosa
noteremmo, se ci fosse un foglia rossa, sopra una pietra chiara? La bianchezza o il punto (R.
Barthes lo
chiamerebbe punctum)
rosso? E cosa ci direbbe tale diversità?
Se
siamo strutturati per acquisire informazioni e rielaborare
percezioni, dove l'altro, l'altra
cosa, sono
substrato per la conoscenza globale e dove il contrasto funge da
sistema interpretativo, supportando la nostra esistenza biologica,
perché da essere umani, tra e con gli esseri umani, lo rifiutiamo,
lo accusiamo, lo emarginiamo, ne abbiamo paura?
La foglia rossa nel chiarore dello sfondo, non porta forse una novità
intrigante? Non ci rende più curiosi ed interessati a quel che
vediamo? Non ci conduce su vie alternative meno scontate?
La
natura ci insegna, dicevo… Ogni componente non è posto a caso e il
contrasto tra diversi elementi cattura lo sguardo, dà indicazioni
utili per la sopravvivenza, rievoca suggestioni. La policromia fa
parte di noi e
ci rispetta.
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